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Danni da malasanità, quando scatta il diritto al risarcimento?

Quante volte ci è capitato di sentire: “Il sanitario che mi ha curato mi ha provocato un danno. Lo denuncio, chissà se si potrà ottenere qualche soldo”. Con questo pensiero il cittadino si rivolge all’avvocato per avviare una causa di risarcimento dei “danni subiti”. Non a caso ho posto l’accento su “danni subiti”. In seguito cercherò di spiegare il perché.

Il business delle denunce in ambito sanitario è uno dei più grandi in Italia, proprio per il motivo che il percorso del paziente che presuppone di aver subito il danno da malasanità talvolta inizia con l’appuntamento dall’avvocato, bypassando il medico legale. Sbagliatissimo. Perché avviare una causa di risarcimento senza la relazione di accertamento dei danni e la loro quantificazione presuppone che in seguito, quando il giudice dispone la consulenza tecnica d’ufficio, il danno potrà rivelarsi inesistente oppure essere qualificato come l’effetto collaterale della cura. 

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Non a caso il 96% delle denunce in ambito sanitario si traduce in un “nulla di fatto”, però con costi giganteschi per lo Stato e, di conseguenza, per tutti i cittadini. Nulla di fatto per il paziente, ma con il danno d’immagine al sanitario o alla struttura che ha curato il paziente. 

Infatti con la Legge Gelli-Bianco (Legge n. 24 del 2017) si è cercato di calmare le onde delle denunce regolamentando la responsabilità civile e penale dell’atto sanitario. Cerchiamo di capire come e quali sono i casi per i quali l’avvio di procedimento per il risarcimento danni può andare a buon fine.

Prima di tutto i danni devono essere accertati e quantificati da uno specialista in medicina legale.  Dopodiché l’avvocato si rivolge al tribunale per presentare un ricorso per portare in giudizio le persone/strutture coinvolte. Il giudice potrebbe a sua volta richiedere la perizia/consulenza del consulente tecnico del tribunale per avere la descrizione imparziale dei fatti accaduti e accettare o meno il danno dichiarato nella lettera di ricorso. 

Ma non basta la presenza del danno accertato e quantificato per essere risarciti. In un secondo momento il giudice avvia le indagini per l’accertamento del cosiddetto nesso di causalità, cioè la dimostrazione che è stata proprio l’azione o l’omissione del sanitario a provocare questo preciso danno. Se tutti i pezzi del puzzle si compongono bel incastrati tra di loro, al paziente verrà riconosciuto il diritto di risarcimento danni. 

Ricordiamoci sempre che l’ambito sanitario galleggia su due tipi di responsabilità: civile e penale, regolamentati dagli articoli 6 e 7 della Legge Gelli-Bianco. 

Nell’ambito penale l’esercente della professione sanitaria risponde nel caso di omicidio colposo (art. 589 del c.p.) e nel caso di lesioni personali colpose (art. 590 del c.p.). Però, “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono osservate le linee guida ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali”, dice il legislatore. E aggiunge: “sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

L’interpretazione di questo articolo è la seguente: l’omicidio colposo e le lesioni personali colpose sono scusabili solo nel caso in cui il sanitario abbia applicato correttamente le linee guida o buone pratiche, adeguandoli al caso concreto in questione, ma i danni si sono verificati perché il sanitario non era esperto nella pratica che stava utilizzando, pur applicandola con dovuta diligenza e prudenza. 

Continuando questo ragionamento si rientra nella parte civile della responsabilità sanitaria, regolamentata dall’articolo 2043 c.c. (responsabilità extracontrattuale) e dagli articoli 1218 e 1228 del c.c. (responsabilità contrattuale), che appunto presuppongono il risarcimento pecuniario dei danni provocato dal fatto illecito (nel primo caso) o dall’inadempimento del contratto (nel secondo caso). 

Quale può essere il contratto tra il paziente e un sanitario?

Non è la guarigione, come purtroppo si indica come i danni nelle molteplici cause di risarcimento, perché la guarigione è vincolata da un numero infinito di fattori, i quali spesso non trovano l’equilibrio per ripercuotersi nell’esito favorevole della malattia. Il contratto di assistenza o cura nell’ambito sanitario non è altro che il massimo impegno possibile del sanitario per il paziente, cosiddetta diligenza, prudenza e perizia di buon padre di famiglia. 

Nel caso di responsabilità extracontrattuale il discorso è ancora più semplice: “Chi rompe paga”. Quindi, se i danni al paziente sono stati provocati dal comportamento negligente, imprudente e imperito di un sanitario, questi danni sono risarcibili. 

Ovviamente anche qui è importante da ricordare il nesso di causalità. Perché se il danno si è verificato  non in seguito al comportamento non dovuto del sanitario, ma per altri motivi (cioè il nesso di causalità tra la condotta ed il danno è assente), la responsabilità non può ricadere al sanitario e quindi i danni non possono essere risarciti. 

Infine si giunge al ragionamento sugli elementi psicologici del reato, cioè alla distinzione tra il dolo, la colpa grave e la colpa live, dai quali scatta il concetto di responsabilità. Se nel caso di dolo (cioè la volontà di provocare un danno) il discorso è più o meno chiaro, come si fa invece nel caso di colpa (cioè assenza di volontà di provocare un danno)? 

Nella legislazione attuale non è prevista una norma che regolamenta la distinzione tra colpa lieve e colpa grave. Questo vuol dire che spetta ad ogni singolo giudice decidere qual è il grado di colpa dell’imputato nel caso in questione.

L’unica definizione di colpa la troviamo in dizionario giuridico, che così descrive il concetto di colpa grave: La colpa è “grave” quando la violazione dell’obbligo di diligenza è particolarmente grossolana, con un discostamento molto evidente del comportamento dell’agente dalle regole di diligenza, prudenza e perizia che il caso concreto avrebbe richiesto di osservare. 

Qui è da ricordare la comma 2 dell’articolo 6 della Legge 24/2017, con la quale il legislatore abroga la comma 1 dell’articolo 3 della Legge 189 del 2012 (Decreto Balduzzi), ripristinando al sanitario l’onere di rispondere penalmente anche per la colpa lieve.

Concludo ritornando al Codice civile e citando l’articolo 2236 (Responsabilità del prestatore d’opera): “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”.

Quindi, se la manovra eseguita dal sanitario è particolarmente difficile e sofisticata, se si tratta di una malattia nuova e finora non conosciuta (com’è stato nel caso di Covid, ad esempio), se il sanitario si trova a prestare il proprio operato nelle condizioni ambientali instabili (es. campo di battaglia durante una guerra, una situazione di incolumità, emergenze multiple, ecc.), risponderà per i danni solo in seguito a comportamento doloso o gravemente colposo.

Dott.ssa Natalia Naydenova (infermiera legale e forense)

Fonte: Nurse Times

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