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In un letto d’ospedale, con la voglia di tornare a casa

“Io ho 90 anni, sai? Sai quante cose ho fatto nella mia vita? Sono partito dal nulla, e ho costruito tanto.. e ora, dopo una vita così intensa, devo morire in un letto d’ospedale? Devo passare i miei ultimi giorni qui da solo? Io voglio tornare a casa, voglio rivedere la mia famiglia.. sono stanco. Mi aiuti a telefonare a mia moglie? Voglio sentirla ancora una volta.. non so se domani mi sentirò in grado di parlare ancora..”


Sei sempre lì, nel letto sotto la finestra: i raggi del sole finiscono tutti sul tuo letto e scaldano parecchio, ma a te va bene così, nonostante sia Maggio.. Ti va bene così, perché hai sempre freddo, e quell’angolo di sole sembra si crei apposta per te.

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Ogni volta che entro in reparto, una delle prime cose che faccio è venire a trovarti, salutarti e vedere come stai.
“Franci!” ti chiamo con voce squillante, per rompere il silenzio che avvolge la tua stanza. Ti costringo ad alzare lo sguardo per cercarmi. Voglio che tu abbandoni i tuoi soliti pensieri, quei pensieri sempre cupi e tristi, per riconoscere la tua infermiera, quella col tuo stesso nome. E tu, nonostante io sia totalmente avvolta nella mia tuta bianca, mi riconosci tutte le volte.

Ultimamente hai deciso di fare lo sciopero della fame: secondo te questo è il modo per far capire ai medici che bisogna dimetterti e portarti dalla famiglia. Tu però non riesci a comprendere esattamente che il Covid ha portato, oltre ai propri problemi, anche altre conseguenze, che ti hanno reso ancora più debole, più delicato. – Come una bambola di porcellana – mi viene spesso da pensare.

Quando arriva il pranzo allora, devo farmi in quattro per convincerti a mangiare qualcosa. Francesco, tu sai perfettamente che con me non vinci la partita, e che farò di tutto per farti mangiare anche solo una mela cotta.


Quando decidi di fare un riposino, abbiamo un rituale tutto nostro per sistemarti:
“Mi rimbocchi le coperte come sai fare tu?”
“Come un fagottino?”
“Si, come un fagottino”.
E tu sai che quel fagottino era lo stesso modo con cui mi avvolgeva mia madre quando ero piccola, te l’ho raccontato una delle prime volte che ti ho visto.

Sono come una mamma per te, o come una nipote? Non so esattamente quali pensieri tu faccia sulla mia presenza, ma sono comunque sicura che ne sei abbastanza contento, perché siamo diventati due buoni amici.

“Grazie per tutto quello che fai per me”, mi ripeti tutte le volte che sto per uscire dalla tua stanza.
“Franci non ringraziarmi, non ne hai bisogno, tra Franceschi ci si capisce.”

Oggi, quindi, mi hai chiesto di telefonare a tua moglie, perché senti dentro di te che ogni momento che passa, un pezzo di te stesso va via, e non sai fino a che punto riuscirai a ricordarti di lei e a parlarle, o a ricordarti della tua stessa vita.


Sistemato il fagottino, con la promessa che dopo una bella dormita chiameremo tua moglie a casa, mi dici “Mi ricorderò di tutto quello che stai facendo per me, Francesca, grazie.”


“Hai deciso di farmi piangere oggi? Lo sai che se piango poi si appannano gli occhialini!” e ridiamo insieme.
“Ci vediamo dopo, ora riposati un pò”.

Arriverà il giorno in cui entrerò in reparto e tu non ci sarai più. Sento questo giorno avvicinarsi sempre più veloce. E lo senti anche tu, ecco perché vorresti tornare dai tuoi figli. Te ne andrai senza vincere questa partita con la malattia, ma il ricordo della persona gentile e dolce che sei, mio caro Francesco, non se ne andrà mai. Forse è questa una vera vittoria, alla fine.

Francesca Biscosi

Fonte: NurseTimes

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