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Sindrome dell’intestino irritabile: difetti genetici nella digestione dei carboidrati influenzano la risposta alla dieta

La sindrome dell’intestino irritabile (IBS) è un disturbo digestivo che colpisce fino al 10% della popolazione mondiale, caratterizzato da dolore addominale, gonfiore, diarrea o stitichezza. Nonostante la sua prevalenza, il trattamento dell’IBS rimane una sfida poiché i sintomi e le risposte agli interventi dietetici o farmacologici variano in modo significativo.

I pazienti spesso collegano i loro sintomi al consumo di determinati alimenti, in particolare carboidrati, e la loro riduzione o eliminazione dalla dieta è emersa come un’opzione terapeutica efficace, sebbene non tutti i pazienti sperimentino gli stessi benefici. Ora uno studio pionieristico, pubblicato sulla rivista Clinical Gastroenterology & Hepatology, suggerisce che le variazioni genetiche negli enzimi umani responsabili della digestione dei carboidrati (hCAZymes) possono influenzare l’efficacia di una dieta a ridotto contenuto di carboidrati nei pazienti con sindrome dell’intestino irritabile.

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La ricerca coordinata dal professor Mauro D’Amato, del dipartimento di Medicina e chirurgia dell’Università LUM e del gruppo di Genetica gastrointestinale dell’istituto CIC bioGUNE, ha studiato il ruolo di geni hCAZymes in relazione all’sindrome dell’intestino irritabile. Attraverso un’ampia collaborazione internazionale (il consorzio GenMalCarb) e i dati dello studio DOMINO, il team ha ora rivelato che gli individui con varianti ipomorfiche (difettose) nei geni hCAZyme hanno maggiori probabilità di trarre beneficio da una dieta a ridotto contenuto di carboidrati.

Lo studio ha coinvolto 250 pazienti con sindrome dell’intestino irritabile confrontando due trattamenti: una dieta a basso contenuto di carboidrati (low-FODMAP) e il farmaco antispasmodico otilonio bromuro. Sorprendentemente, dei 196 pazienti che hanno seguito la dieta, quelli portatori di geni hCAZyme difettosi hanno mostrato un netto miglioramento rispetto ai non portatori, e l’effetto è stato particolarmente pronunciato nei pazienti IBS con diarrea predominante (IBS-D), che avevano una probabilità sei volte più alta di rispondere alla dieta. Al contrario, questa differenza non è stata osservata nei pazienti trattati con il farmaco, sottolineando la specificità della predisposizione genetica nell’efficacia del trattamento dietetico.

“Questi risultati suggeriscono che le variazioni genetiche negli enzimi hCAZyme, che svolgono un ruolo chiave nella digestione dei carboidrati, potrebbero diventare indicatori chiave per la progettazione di una dieta personalizzata nel trattamento della sindrome dell’intestino irritabile – commenta Mauro D’Amato, autore senior dello studio -. L’IBS  è una condizione eterogenea e multifattoriale, con ambiente, dieta, microbiota, genetica e fattori legati al sistema immunitario che giocano tutti un ruolo importante.

E’ difficile da diagnosticare e trattare perché meccanismi diversi predispongono all’insorgenza di sintomi che si presentano sostanzialmente indistinguibili da un punto di vista clinico – prosegue il professor D’Amato -. Studiamo ormai da anni la predisposizione alla sindrome dell’intestino irritabile, sperando di identificare fattori genetici che possano consentire una stratificazione dei pazienti in diverse tipologie e gruppi “molecolari” per una migliore precisione terapeutica”.

E ancora: “Come nelle forme ereditarie di intolleranza ai carboidrati quali i deficit di lattasi o saccarasi, stiamo scoprendo che alcuni difetti genetici negli hCAZymes possono predisporre alla sindrome dell’intestino irritabile attraverso una maldigestione dei carboidrati. Ciò può essere affrontato da un punto di vista terapeutico attraverso la loro riduzione o eliminazione dalla dieta, focalizzando l’attenzione sugli individui geneticamente predisposti”.

In futuro l’integrazione della conoscenza del genotipo hCAZyme nella pratica clinica potrebbe consentire ai medici di identificare in anticipo quali pazienti hanno maggiori probabilità di trarre beneficio da specifici interventi dietetici. Ciò non solo eviterebbe diete restrittive non necessarie per coloro che difficilmente ne trarrebbero beneficio, ma aprirebbe anche la porta alla medicina personalizzata nella sindrome dell’intestino irritabile.

Il gruppo di ricerca ha sottolineato la necessità di ulteriori studi per convalidare questi risultati e approfondire i meccanismi biologici in gioco. Se confermato, questo approccio potrebbe migliorare notevolmente il trattamento della sindrome dell’intestino irritabile e di patologie gastrointestinali simili, rendendo le strategie dietetiche e terapeutiche più precise ed efficaci.

Lo studio ha coinvolto ricercatori e clinici provenienti da Italia (Università LUM e Università di Napoli), Spagna (CIC bioGUNE), Germania (IKMB e Università di Medicina Veterinaria di Hannover), Belgio (TARGID) e Regno Unito (Università di Nottingham) e ha ricevuto finanziamenti dal Governo spagnolo, dal ministero federale tedesco per l’Istruzione e la ricerca e dal Medical Research Council UK sotto l’egida del programma europeo di programmazione congiunta “A Healthy Diet for a Healthy Life” (JPI HDHL) e dell’ERA-NET ERA-HDHL, e del Belgian Health Care Knowledge Centre.

Redazione InfoNurse

Fonte: Nurse Times

Redazione InfoNurse

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