Covid-19, alcuni farmaci antinfiammatori possono aiutare nella gestione clinica dell’infezione

Rilanciamo un interessante articolo pubblicato su Medical Facts.

Nel thriller psicologico Take Shelter un uomo sperimenta ossessivamente una serie di visioni che mettono a rischio la vita della sua famiglia. Seppur abbastanza diverse tra loro, le visioni iniziano sempre con l’arrivo di una tempesta, un’immagine che risuona come un campanello d’allarme nella mente del protagonista. Qualcosa di analogo, ma decisamente più reale, avranno provato i medici cinesi di Wuhan nell’osservare il quadro clinico dei primi pazienti colpiti da COVID-19: il riconoscimento dei segni di una tempesta infiammatoria, simile a quella già vista in passato in altre malattie. Da qui l’attivazione del campanello d’allarme, e fortunatamente, anche l’idea di combattere questa nuova infezione con farmaci anti-infiammatorio già in uso per altro. Farmaci che, seppur non risolutivi, possono aiutare nella gestione delle complicanze più gravi dell’infezione.

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Differenze tra chi sopravvive e chi non sopravvive a COVID-19 – COVID-19, la malattia causata dal nuovo coronavirus SARS-CoV-2, si esprime con una serie di manifestazioni cliniche che a seconda del paziente affetto spaziano da febbre e tosse nei casi più lievi ad una polmonite virale primaria che in circa il 10% dei casi può degenerare nella sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS).  Questa sindrome è caratterizzata dall’accumulo di liquido nei polmoni, impedendo loro di effettuare lo scambio tra ossigeno e anidride carbonica al quale normalmente sono preposti. Questi pazienti vengono quindi sottoposti a trattamento in terapia intensiva con ventilazione meccanica. Nonostante ciò, una percentuale significativa di essi purtroppo subisce ulteriori complicanze e va incontro a morte. Ma cosa determina se una persona che viene infettata da SARS-CoV-2 se la caverà dopo aver accusato sintomi più o meno gravi, oppure non ce la farà? Ovvero, in termini tecnici, quali sono i fattori di rischio che predispongono alla morte da COVID-19?

Ormai sapete tutti come l’età più avanzata e la co-presenza di altre patologie (in particolare ipertensione, diabete e patologie cardiache) aumentano significativamente la probabilità di andare incontro a morte dopo infezione da SARS-CoV-2. Ma c’è di più che deriva da alcune osservazioni cliniche: sin dai primi giorni dall’arrivo in ospedale, i pazienti che poi sarebbero deceduti presentavano nel sangue livelli della proteina interleuchina-6 più alti rispetto a chi si sarebbe salvato. Via via che la malattia progrediva verso la morte i livelli di interleuchina-6 diventavano sempre più esagerati e lontani rispetto a quelli dei pazienti che invece nel tempo guarivano. Questo dato, insieme alla diminuzione del numero di linfociti nel sangue e all’accumulo di liquido nei polmoni ha fatto capire ai medici che così come in pazienti affetti da altre malattie (infezioni dai precedenti coronavirus SARS-CoV e MERS-CoV; malattie autoimmuni; tossicità da immunoterapia tumorale) anche in chi sta morendo di COVID-19 è in corso una tempesta infiammatoria, di cui interleuchina-6 rappresenta uno degli attori principali.

Che cos’è una tempesta infiammatoria – Nel momento in cui un organo viene colpito da un’infezione virale, le prime a rispondere sono le cellule infettate stesse (nel caso di COVID-19 principalmente le cellule delle vie respiratorie, tra cui le più delicate sono le cellule degli alveoli dove hanno luogo gli scambi gassosi  e le cellule dendritiche, provenienti dal sangue, ma trasferitesi nei vari organi del nostro corpo proprio per vigilare sull’arrivo di agenti patogeni. Queste cellule sono fondamentali nello scatenare una risposta immune efficace. Non appena queste avvertono la presenza di qualcosa di anomalo (nel caso specifico, componenti del virus), reagiscono rilasciando nell’organo stesso e nel sangue delle proteine chiamate citochine infiammatorie, tra cui l’interleuchina-6. Queste citochine a loro volta creano dei piccoli varchi tra le cellule endoteliali, i mattoni che compongono la parete dei vasi sanguigni. Approfittando dei varchi creatisi, diverse cellule del sistema immunitario, tra cui neutrofili, macrofagi e linfociti, anch’esse attivate dalle citochine infiammatorie possono così passare dal sangue all’organo infettato e scatenare una risposta immunitaria contro il virus. Le citochine infiammatorie rappresentano quindi un segnale di fumo lanciato dall’organo colpito per comunicare a distanza con le cellule del sistema immunitario e radunarle sul campo di battaglia.

Se però la scintilla non viene controllata e non viene spenta in fretta, quello che nasce come soltanto come un prezioso segnale di fumo può trasformarsi in un vero e proprio incendio. E’ questo il concetto alla base della tempesta infiammatoria che si è scatenata in passato nei casi più gravi di infezione da SARS-CoV e MERS-CoV, e che si scatena in questi giorni nei casi più gravi di infezione da SARS-CoV-2: in alcuni pazienti le citochine infiammatorie vengono prodotte in quantità esagerate, creando nelle pareti dei vasi non dei piccoli varchi, ma delle vere e proprie voragini che, fra l’altro,  contribuiscono anche all’accumulo di liquido caratteristico dei casi più gravi di COVID-19. Inoltre, quando presenti in quantità esagerate le citochine infiammatorie cominciano anche ad uccidere le cellule epiteliali dei polmoni. L’accumulo di liquido nei polmoni e la distruzione delle sue cellule epiteliali rendono impossibile la respirazione autonoma del paziente, richiedendo la ventilazione meccanica. Come se non bastasse, a questi livelli esagerati le citochine infiammatorie dall’organo infettato riescono tramite il sangue a raggiungere e a colpire anche gli altri organi, provocando la cosiddetta sindrome da disfunzione multiorgano, l’ultimo passo prima della morte.

Predispozioni alla tempesta infiammatoria – Perché in seguito ad infezione da SARS-CoV-2 una percentuale significativa di pazienti reagisce producendo una mole esagerata di citochine infiammatorie, andando in contro alla tempesta infiammatoria e all’aggravarsi della malattia, mentre gli altri pazienti producono le citochine soltanto quanto basta per attivare in modo efficace, ma contenuto, il sistema immunitario contro il virus? Di preciso, non lo sappiamo. Sono tre le ipotesi principali, tutte ragionevoli e non mutualmente esclusive:

1) Alcuni pazienti rispondono scatenando una tempesta infiammatoria esagerata perché già prima di incontrare il virus, a causa di patologie pre-esistenti, partono da livelli di citochine infiammatorie più alti della norma.

2) Un’altra possibile spiegazione è che l’invecchiamento stesso delle nostre cellule sbilancia di per sè il nostro organismo verso uno stato pro-infiammatorio lievemente sopra la norma. Basta poi uno stimolo esterno in più per scatenare la tempesta infiammatoria. Questo è uno dei motivi per cui l’incidenza di molte malattie autoimmuni è più alta negli anziani, e potrebbe anche essere il motivo per cui negli anziani le infezioni da coronavirus hanno esiti significativamente più gravi che nei giovani.

3) La terza ipotesi, ancora non dimostrata nel caso di COVID-19, è che a parità di età (ad esempio nei meno anziani) e in assenza di patologie pre-esistenti alcuni individui possano essere geneticamente più pre-disposti di altri a produrre eccessivi livelli di citochine infiammatorie.

Al di là di quale sia la causa, è chiaro che nella lotta contro questo nuovo coronavirus bisogna far di tutto per evitare che si scateni, o per spegnere in corso d’opera, un’eventuale tempesta infiammatoria. Nel prossimo articolo ci focalizzeremo sul ruolo chiave che l’interleuchina-6 gioca in questa tempesta, e su come si stia ultimamente cercando di bloccarla in alcuni pazienti COVID-19.

Redazione InfoNurse

Fonte: Medical Facts

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