Essere infermieri…di rianimazione! Una scelta di vita.
“Secondo Lei, mi sente?”
Alzo gli occhi dal circuito dell’arteria, oltre la testata del letto. Tra i guanti brandisco la siringa eparinata per l’emogas.
“Prego?”, chiedo di rimando, colta di sorpresa.
Nel frattempo la guardo, timidamente.
Il viso bellissimo, i capelli raccolti in una spettinata treccia biondo cenere, gli occhi nocciola, arrossati e stanchi. Con le dita affusolate, curatissime, stringe nervosamente la spondina destra del letto.
“Secondo Lei, riesce a sentirci quando io e mio papà le parliamo? Siamo qui da un giorno ma non so se capisce, se sa che ci siamo, se ci sente..”, mi domanda di nuovo, con la voce fonda, traballante, imbarazzata.
Non l’ho mai vista prima. Forse non l’ho mai notata, con la rotazione dei turni e dei pazienti con i colleghi, ma adesso, guardandola davvero per la prima volta, mi sembra la cosa più bella qua dentro.
Avrà più o meno i miei anni, e mi dà del Lei.
Avrà più o meno i miei anni, mi guarda e io non so come risponderle, quali parole usare, quanta dose di speranza mescolarci dentro.
“Io.. io credo di sì”
Le sorrido lieve, un po’ balbetto. La fisso ancora qualche secondo, quasi di nascosto, mentre lei, senza dire nulla, si riabbassa, dolcemente, sul viso della mia paziente.
“Mamma, mi senti? Sei caduta dalla bicicletta, sei in ospedale, ti ricordi? Siamo qui, siamo qui con te, papà ora arriva…”
Mentre lavo il circuito, lancio un’occhiata veloce a Elvira, ispezionandola dalla testa ai piedi. Un ammasso di tubicini, cateteri, drenaggi, prolunghe, apparecchi gessati e fissatori esterni.
Mi allontano silenziosamente per mettere inserire nell’emogasanalizzatore i suoi due cc di sangue. Nelle informazioni paziente, come da protocollo, non digito il suo nome, ma semplicemente il numero del suo letto 4. Invio.
Mentre attendo la stampa, mi giro di nuovo verso i box, verso “la paziente 4”. Il mio sguardo abbraccia la prospettiva di tutta la Rianimazione.
Le postazioni, intano, si colorano debolmente con i familiari e i parenti in visita serale ai nostri assistiti.
Un monitor suona. È quello del letto 1, l’incidente di moto, uno dei tanti, in coma. Un solo anno più di me. La fidanzata, in sella dietro di lui, poco più grande di mia sorella, non è mai arrivata qui. Morta sul colpo, scaraventata lontana da questo mondo in una manciata di battiti di cuore.
Il collega accorre subito a verificare la situazione, mentre i genitori del ragazzo si allontanano dal letto in automatico, senza proferire parola, corpi persi nel vuoto, slegati, come satelliti senza un pianeta.
Mi vedo io, in quel letto, con un tubo in trachea a ventiquattro anni. Immagino mia mamma, da sola, in una circostanza del genere. Senza poter capire, senza poter sapere.
Sposto lo sguardo fuori dalla finestra, sono le 19, è già buio pesto. Mi specchio per un istante nel riflesso del vetro.
Penso a quanto sia emblematicamente stupido dover chiamare i pazienti con il numero del letto sul quale li abbiamo accolti.
Penso a Elvira, che potrebbe essere mia madre, e a quella ragazza spettinata e stanca, che potrei essere io.
Chissà cosa studia, qual è il suo album musicale preferito, che rapporto ha con la mamma, se in bici vanno mai insieme, se si aiutano con i piatti da lavare dopo il pranzo in famiglia della domenica.
Se ci fossi stata io, al posto suo, avrei pianto a dirotto tutto il tempo.
Se ci fossi stata io. Se.
Ma io sono “di qua”, da quest’altro lato, con in mano un fogliettino di carta pieno di valori respiratori e metabolici che così non vanno proprio, e che solo per un mero caso del destino non sono quelli di mia madre.
Io sono di qua, ho ventiquattro anni, una divisa blu, una laurea e tre mesi di esperienza lavorativa.
Io sono di qua, con il cambio e l’ipod nell’armadietto dello spogliatoio, e tra un’ora, uscita da qui, potrò chiamarla, la mia mamma, sentirne la voce. Prometterle “ci vediamo domani”.
Sono di qua e penso a quanto sia difficile, a ventiquattro anni come a sessanta. Andare oltre il tecnicismo, depositare l’armatura di tanti stratagemmi alacremente elaborati per farci sembrare e sentire professionisti invulnerabili, forti, distaccati ed efficienti. Quanto sia tremendamente impegnativo correre il rischio di farsi consapevolmente coinvolgere, seppur di tanto in tanto, seppur a piccole dosi.
Quanto sia mentalmente faticoso – soprattutto in casi particolari – l’esserci e non solo il “trovarcisi”.
Ripenso alle parole di una collega, uno dei primi giorni passati a sbattere testa e cuore tra le pareti di questa clinica.
“L’unico modo che hai di andare avanti in questo lavoro è dimenticarti che sono esseri umani. Non pensare alle storie, alle loro famiglie, alle loro case. Immaginali tutti uguali, confronta i valori numerici, interagisci con i monitor, i ventilatori, le macchine.”
Un po’ come in guerra, mi son detta amaramente, ascoltandola in silenzio, forse perché anche qua dentro si combattono battaglie.
Un po’ come in guerra, sì, come quando, da soldato, ti insegnano a non visualizzare più persone, ma soltanto bersagli. Forse perché, a volte, anche noi sappiamo essere dei grandissimi egoisti, e l’unica sopravvivenza di cui ci interessi davvero qualcosa è esclusivamente la nostra.
Torno da Elvira, guardo di nuovo lei, la ragazza con la treccia, il marito che nel frattempo ci ha raggiunti e che le accarezza ripetutamente la piccola porzione di viso libera dai tubi e dalle fascette.
In sofferente silenzio.
Li osservo e non riesco proprio a vedere dei nemici, ma soltanto degli alleati.
Riabbasso gli occhi sul fogliettino dell’emogas.
Mi convinco, ancora una volta, che il giorno in cui non riuscirò più a empatizzare, il giorno in cui non sarò più in grado di riconoscere un qualsiasi evento per qualcun altro drammatico come potenzialmente anche un po’ mio – quando non mi farò più domande e sentirò di avere sempre pronte tutte le risposte giuste al momento giusto, ecco: quel giorno io non sarò più adatta per questo meraviglioso lavoro.
E allora alzo gli occhi dalla cartella ai piedi del letto, poggio la penna, mi avvicino alla ragazza con la treccia, faccio un bel respiro e prendo coraggio.
Decido di balbettare ancora un altro po’, per lei, per Elvira, e anche un po’ per me stessa.
“Sì… secondo me lei ci sente. Parlatele… Se fosse mia madre, io proverei a parlarle. Le racconterei la mia giornata, quello che vedo, quello che lei non può vedere. Siate i suoi occhi, per adesso. Ha bisogno che voi le parliate…”
Mi guardano entrambi, con stupore. La ragazza per un momento quasi sembra sorridere, stacca le mani dalla spondina e tra le sue prende le mie. È fredda.
“Grazie”, mi dice con un filo di voce, stringendomele con una forza che a guardarla così, in quel momento, non le avrei mai attribuito.
“È che non sappiamo, non capiamo, scusami.. grazie di aver parlato.”
Il papà, dall’altro lato del letto, annuisce con gli occhi lucidi. La mano sinistra sempre sulla guancia destra di Elvira, come se avesse inserito il pilota automatico delle carezze.
Ho sorriso con tenerezza, mentre il silenzio lasciava spazio all’amore.
“Mamma, ma lo sai che oggi papà lavando i piatti ne ha rotti ben due? È il solito disastro! E Nerina, mi sa che anche lei sente la tua mancanza! Non si schioda dalla tua poltrona…vero papà?”
Li ho osservati per un po’. E ho pensato che se alla classica domanda “perché hai scelto di essere un’infermiera? sei felice di averlo fatto?” se si potesse rispondere con un’immagine, per me, tra le tante, sarebbe esattamente questa.
Fonte: www.nursetimes.org
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